di Michela Morgana.
La psicologia buddista è altamente sofisticata e considera una vasta gamma di fenomeni mentali e psicosomatici, gamma superiore a quanto studiato dalle psicologie occidentali. Il suo modo di intendere l’essere umano parte dal considerare la personalità non una struttura stabile ed omogenea ma quale frutto dell’assemblaggio provvisorio di cinque “aggregati”. Il primo è la forma (corporeità, incarnazione, avendo tutto nel mondo dei fenomeni una forma). Poi, dall’esterno verso l’interno, il secondo aggregato è la percezione, poi la coscienza, i fenomeni mentali e infine la conoscenza. Intermediario tra coscienza e conoscenza è samskara (termine sanscrito), che comprende la totalità delle attività psichiche, considerate come emanazioni mentali. Queste produzioni mentali formano il carattere dell’individuo, la sua personalità e si interpongono, come uno schermo, tra la coscienza e la conoscenza. Intermediario obbligato, samskara costituisce l’ostacolo alla chiara visione delle cose. Nel buddismo sono le emozioni l’ostacolo da superare, intendendo per emozione qualcosa che condiziona la mente, facendole adottare un certo punto di vista o visione delle cose. L’emozione è considerata distruttiva non tanto se provoca danni evidenti ma se ne provoca uno ben più sottile, cioè se distorce la percezione della realtà. Un’emozione distruttiva (un fattore che “oscura” o “affligge”, per come si esprime questa psicologia) è qualcosa che impedisce alla mente di riconoscere la realtà per quello che è, creando uno iato tra apparenza ed essenza delle cose. Le emozioni che oscurano limitano la libertà dell’individuo concatenando i pensieri in modo da costringerlo a pensare, parlare e agire in base a condizionamenti. Le emozioni costruttive sono invece legate ad una valutazione corretta della natura di quanto percepito e sono fondate su un uso sano della ragione. Nelle scritture buddiste si parla di ottantaquattromila tipi di emozioni negative e pur non essendo tutte identificate nei particolari, riflettono simbolicamente la complessità della mente umana. Altrettanto, si parla delle ottantaquattromila porte di ingresso al sentiero buddista della trasformazione interiore riferendosi ai metodi che vanno adattati alla grande varietà di atteggiamenti mentali. Queste emozioni così varie si riducono a cinque principali: odio, attaccamento, ignoranza, orgoglio, gelosia.
L’odio è il desiderio profondo di nuocere a qualcuno, di distruggerne la felicità. Può non essere evidente manifestandosi invece in quelle circostanze che scatenano l’animosità. È inoltre collegato ad altre emozioni affini, come il risentimento, il rancore, il disprezzo, l’animosità e così via.
L’attaccamento ha essenzialmente a che fare con un tipo di legame che fa vedere le cose come non sono.
C’è il semplice desiderio per il piacere sessuale o per un oggetto che si vuole possedere. Ma c’è anche l’aspetto più sottile dell’attaccamento al concetto di “io”, alla persona e alla realtà fisica dei fenomeni, che porta a pensare che le cose siano permanenti. Attaccamento significa aggrapparsi al proprio modo di percepire le cose.
L’ignoranza è l’incapacità di distinguere tra ciò che va compiuto oppure evitato per raggiungere la felicità ed evitare la sofferenza, è un fattore che impedisce il corretto riconoscimento della realtà, è uno stato mentale che oscura la saggezza o la conoscenza ultima ed è un aspetto della mente che per questo provoca afflizione.
L’orgoglio si presenta in molti aspetti, come essere orgogliosi dei propri traguardi, sentirsi superiori agli ltri o disprezzarli, valutare erroneamente le proprie qualità o non riconoscere le doti altrui. È in parallelo all’incapacità di riconoscere i propri difetti. La gelosia è l’incapacità di gioire della felicità altrui.
Queste emozioni fondamentali sono legate al concetto di “io”, che ha nel buddismo consistenza illusoria.
Quando si comincia ad attaccarsi al concetto di io come a qualcosa di reale che ha bisogno di essere protetto e compiaciuto, compaiono le afflizioni.
Se le emozioni distruttive fossero connaturate alla mente, non avrebbe senso tentare di liberarsene. A partire dalle esperienze contemplative, il buddismo ritiene che le emozioni distruttive non siano radicate nella natura fondamentale della coscienza e che invece si manifestino in determinate circostanze, a seguito di abitudini e tendenze che si esprimono negli strati esterni della coscienza.
I livelli di coscienza sono tre, quello ampio, quello sottile e quello molto sottile.
A livello ampio si hanno tutti i tipi di emozione. Questo livello corrisponde al funzionamento del cervello e all’interazione del corpo con la mente. Il livello sottile corrisponde al concetto di “io” (inteso come funzione) e alla facoltà introspettiva grazie alla quale la mente esamina la propria natura. Comprende anche il flusso mentale che porta con sé tendenze e modelli abituali. Il livello molto sottile è l’aspetto più fondamentale della coscienza, ciò che rende possibile l’esistenza della facoltà cognitiva. È coscienza o consapevolezza pura, non concentrata su alcun oggetto specifico. Di solito non si percepisce la coscienza in questo modo, per farlo ci vuole un’educazione alla contemplazione.
Le emozioni riguardano il livello ampio e quello sottile mentre non hanno alcun effetto su quello più sottile (chiamato talvolta luminoso, per indicare la facoltà fondamentale dell’essere onsapevole, senza alcuna colorazione derivante da costruzioni mentali).
La risposta buddista alle afflizioni è la meditazione. All’interno del buddismo coesistono diverse scuole e tradizioni tanto teologiche quanto di meditazione. Tra le diverse possibili a titolo ’esempio propongo la meditazione specifica del buddismo giapponese. ZEN in giapponese significa meditazione.
La concentrazione dello spirito (Sesshin, in giapponese).
Al principiante viene chiesto di assumere la posizione seduta prolungata che raccoglie il corpo e lo rende la propria statua cosciente. Si comincia con l’imparare a stare seduti senza fare niente, in uno stato di attenzione costante, di completa apertura, di distacco da qualsiasi pensiero. È una via di ritorno all’origine e in quanto tale la sesshin è vissuta come occasione di revisione critica del proprio comportamento in vista di un cambiamento consapevole. Si riapprende tutto dall’inizio, in primo luogo a respirare bene.
Le diverse scuole di buddismo, così come tutte le scuole di meditazione di altre tradizioni religiose, danno grande importanza alla concentrazione sull’inspirazione – espirazione, processo primario che è in meditazione presa di coscienza dell’essere viventi. La respirazione profonda che lo zen insegna è quella del neonato. Rappresenta quindi una seconda nascita, l’inizio di una nuova vita. L’aria respirata non è solo un composto di elementi chimici, è il conduttore dell’energia cosmica. Di conseguenza, l’allievo è invitato a rappresentarsi il respiro inspirato, portatore di vita, che circola attraverso l’organismo “ventilandolo” in tutte le sue parti. Solo se il suo percorso è sufficientemente prolungato può diventare efficace e a questo fine l’allievo impara a concentrarsi sul ventre, a tre dita sotto l’ombelico. Nella fisiologia cinese questo punto corrisponde al centro vitale, il Qi hai (cinese), dove si riunisce e immagazzina il Q’i, l’energia universale e spirito cosmico.
Gradualmente il praticante passerà dall’abituale respirazione corta ad una respirazione completamente differente, lenta e profonda. Mentre la prima è polmonare la seconda è addominale e procura distacco e serenità. Visualizzando quello che succede se ne può comprendere il senso.
In questo punto, dove penetra l’energia cosmica, può avvenire la riunificazione di corpo e spirito (respiro), può iniziare la riscoperta interna del corpo attraverso lo spirito e l’ascolto del corpo. Identificandosi con il respiro, lo sguardo percorre l’intero organismo con l’atteggiamento idealmente oggettivo del Risveglio.
Nelle parole del Maestro Kodo Sawaki “le ginocchia devono spingere la terra e la testa il cielo” troviamo definita la postura dell’Uomo primordiale, simboleggiata dall’albero cosmico che tramite i rami e le radici mette in comunicazione cielo e terra. In zazen (meditazione seduta), la coscienza impara a conoscere il corpo, le sue deformazioni, le sue debolezze, ma anche la forza essenziale. In questa rappresentazione cosciente del corpo il maestro può usare il kyosaku (bastone di legno lucido consacrato) per sciogliere le tensioni. Il colpo doppio, inferto simmetricamente su certi punti dell’agopuntura, permette di raddrizzare la colonna vertebrale e perfino di visualizzarla come asse luminoso intorno al quale si struttura il corpo. Zazen, che è ritorno all’equilibrio, permette di correggere le distorsioni divenute inconsce, di procedere a un esame minuzioso del funzionamento organico e, di conseguenza, psichico. Grazie all’ascolto del corpo si prende coscienza dell’erronee conoscenze di sé e delle proprie possibilità. In sesshin si apprende di nuovo a camminare, a mangiare, (in silenzio, pensando a quanto si sta facendo, all’ingestione del cibo e alla sua assimilazione) e anche a dormire. Ci si concentra sull’istante presente, sul qui ed ora. In zen si riscopre l’attenzione e la pazienza.
Lo sguardo interiorizzato.
Pensare non pensato (hi – shiryo) è lo stato che i praticanti dovrebbero raggiungere. In giapponese hi – shiryo si oppone a shiryo , “ciò che è pensato”, e anche a fu – shiryo, il “non pensato”. Come diceva il Maestro Deshimaru, “finché sarete vivi, il vostro cervello funzionerà e non potete impedirglielo”. Hi- shiryo è quindi uno stato paradossale, diverso sia dal pensare (shiryo) che dal non pensare (fu – shiryo). Lo si raggiunge senza volerlo né cercarlo e rimette in discussione quanto pensavamo di sapere sul funzionamento del pensiero.
Hi – shiryo, il pensiero sorto dal “profondo del non-pensiero”, si oppone alla mente: è la “non-mente”. Va qui ricordato che nell’analisi della psicologia buddista dei processi psichici la mente è considerata soggetta al desiderio e all’illusione.
L’ignoranza tiene la mente in un circolo vizioso dove i fenomeni, manifestazioni impermanenti, quindi illusorie, mascherano la realtà che la mente ignorante non riesce a discernere, ma avendo la mente comunque bisogno di punti di riferimento, se li crea, costituendo così una pseudo realtà. La psicologia buddista, fondata sull’esperienza diretta della meditazione, attraverso l’analisi della personalità affronta questo processo autoperpetuantesi al fine di interromperlo e permettere l’uscita dallo stato di ignoranza.
Il praticante sospende la mente non per abolirla completamente, cosa impossibile, ma perché considera il suo funzionamento alla stregua di quanto la psicoanalisi considera le proiezioni generate dall’inconscio, che deformano e mascherano la realtà. Prendendo le distanze dalla mente, il praticante riesce a togliere samskara, il velo che dissimula la realtà. L’assenza di pensiero non consiste nel non pensare a nulla, che sarebbe una forma di attaccamento a questo nulla, ma nel pensare a tutte le cose, istante dopo istante, con perpetuo distacco. Se il flusso di pensieri si interrompe e il pensiero si fissa, si sarà legati: per essere slegati, liberi, bisogna che i pensieri scivolino perpetuamente su tutte le cose senza mai fissarvisi.
I fenomeni che si verificano durante zazen sono stati studiati nel corso di numerose osservazioni di monaci in meditazione. Innanzitutto la posizione adottata è molto stabile, tanto da poter essere conservata a lungo in assoluta immobilità. Il tronco appoggia su una base larga e solida poiché il centro di gravità è posto molto in basso, nel mezzo del triangolo formato dalle due ginocchia e dalle natiche. La parte superiore del corpo può così controllare il proprio equilibrio e mantenerlo grazie a una tensione minima dei muscoli implicati (con la pratica lo sforzo diminuisce progressivamente). Gli altri muscoli possono allentarsi a livello delle spalle, delle braccia e del ventre, tanto da eliminare l’abituale contrazione delle viscere, mentre la modalità respiratoria bassa e profonda permette di espellere l’aria “viziata” residua molto più del normale. Il metabolismo si abbassa a un livello inferiore anche a quello del sonno. L’organismo in riposo produce poche scorie e viene pulito dai processi di eliminazione rimasti attivi. La sensazione di disintossicazione provata talvolta dopo zazen può in parte essere spiegata con la considerevole diminuzione del tasso di acido lattico (che ricordiamo essere invece superiore alla norma nei depressi e negli ansiosi). Fin dall’inizio di zazen, l’elettroencefalogramma registra un cambiamento del ritmo delle onde cerebrali che passano dal ritmo beta, rapido (da 18 a 30 cicli per secondo) e tipico dell’attività della mente abituale nello stato di veglia, al ritmo alfa, molto più lento (circa 10 cicli per secondo). Normalmente, il ritmo alfa, molto più stabile, è transitorio tra la veglia e la fase di addormentamento ed interviene solo quando il soggetto ha gli occhi chiusi, mentre in zazen gli occhi rimangono sempre aperti. Le onde alfa rallentano poi progressivamente fino al ritmo theta, ancora più lento (da 4 a 7 cicli per secondo), caratteristico dell’addormentamento. Se protratto nel tempo (senza cadere nel ritmo delta, quello dell’assopimento) il ritmo theta consente un’apertura e una chiaroveggenza sorprendenti. Nel ridare equilibrio all’organismo si raggiunge un altro effetto di grande importanza: i due emisferi cerebrali funzionano in egual modo, cosa che non si verifica nella vita normale. Il neurofisiologo americano Gellhorn ha dimostrato che il rilassamento muscolare accompagnato al controllo respiratorio provoca un abbassamento dell’eccitazione corticale e una predominanza del sistema parasimpatico e lo paragona a uno “stato di vacuità della corteccia senza perdita di coscienza”, ciò che lo zazen chiama hi-shiryo. L’espirazione lunga e profonda comporta una migliore ossigenazione dell’organismo e se ne avvantaggia in particolare il cervello che da solo consuma il 20% dell’ossigeno assorbito dal corpo pur avendo solo il 2% del suo peso. Fisiologico e psicologico si armonizzano. Mettere da parte la mente significa semplicemente cessare di identificarsi con essa, non immaginare più di essere i pensieri che ci attraversano e che bisogna semplicemente lasciar andare.
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