di Michela Morgana.
La psicologia occidentale nella sua versione contemporanea è legata storicamente allo sviluppo della scienza in ccidente in senso necessariamente laico e anche allo stesso tentativo di comprendere la mente già in essere da secoli della psicologia cristiana d’oriente e d’occidente, la cui forma più antica e famosa di meditazione è l’esicasmo, ancora oggi praticato nelle chiese cristiane d’oriente (e non solo).
L’esicasmo è la meditazione dell’esichia, ossia la pace interiore, ottenuta con la “preghiera del cuore”. Ma per arrivare alla preghiera del cuore e alla sua pace l’allievo deve prima imparare altri livelli di meditazione e relativa preghiera. La prima indicazione che viene data al praticante riguarda la stabilità, un buon rapporto con il suolo. Non è ancora un’indicazione di ordine spirituale ma fisica: sedersi. Il modello da seguire è la montagna. Sedersi come una montagna vuol dire anche prendere peso, essere pesante di presenza. La propria presenza consapevole. Farlo, cambia profondamente la nozione di tempo. Le montagne hanno un altro tempo, un altro ritmo. Essere seduto come una montagna è avere l’eternità davanti a sé, è l’atteggiamento giusto per colui che vuole entrare nella meditazione; sapere che c’è l’eternità dietro, davanti e dentro a sé. Si impara di nuovo a essere, semplicemente a essere, senza scopo né motivo. Meditare come una montagna è la meditazione stessa dell’Essere, del semplice fatto di essere, prima di ogni pensiero, di ogni piacere e dolore. Con la montagna, si impara a “vedere” senza giudicare.
La meditazione è però anche l’orientamento, e così, senza dimenticare la montagna, si impara anche dal papavero, a volgersi verso il sole, dal più profondo di sé verso la luce. Orientarsi verso la luce, verso il bello, come il sole verso cui tende il papavero e che lo fa crescere. E così come il papavero deve avere lo stelo eretto, il meditante impara a raddrizzare la colonna vertebrale (anche se l’immagine classica dell’esicasta è di un uomo raccolto in sé, seduto a terra, ginocchia flesse e capo poggiato sul petto. Ma è in una più tarda fase che questa posizione viene assunta, se viene valutato opportuno assumerla). Il papavero insegna non soltanto la dirittura dello stelo ma anche la flessibilità sotto le ispirazioni del vento e una certa umiltà, data dalla sua fugacità e fragilità. Bisogna imparare a fiorire e anche ad appassire. Se la montagna da il senso dell’eternità, il papavero insegna la fragilità del tempo: meditare è conoscere l’eterno nella fugacità dell’istante, un istante bene orientato (come il papavero verso il sole).
È questo il momento per meditare come l’oceano. Flusso e riflusso, accordare il proprio respiro al grande respiro delle onde. Inspirare, espirare…essere inspirato, essere espirato. Lasciarsi portare dal respiro come ci si lascia portare dalle onde. Se anche vi sono onde in superficie il fondo dell’oceano rimane tranquillo. I pensieri vanno e vengono come schiuma, ma il fondo dell’essere rimane immobile. I monaci esicasti insegnano che chi ascolta attentamente la propria respirazione non è lontano da Dio e invitano ad ascoltare chi giace al limite della espirazione e chi si trova al principio della inspirazione. Silenzio.
Ancora, bisogna imparare a meditare come un uccello (mélété – meleton in greco, meditari – meditatio in latino, da cui meditazione, hanno tra gli altri nella loro radice primitiva anche il senso di mormorare a mezza voce). Bisogna meditare con la gola non soltanto per raccogliere il respiro ma anche per mormorare, giorno e notte, il nome di Dio. Meditare è respirare cantando. Si entra propriamente nell’esicasmo a questo punto della meditazione, con il kyrie eleison, la cui traduzione più nota è “Signore pietà”. Vi sono anche altri significati e comunque il suo potere si rivela da sé se si è sensibili e attenti alla vibrazione che esso suscita nel corpo e nel cuore.
Fin qui l’insegnamento dello staretz (il maestro, o padre spirituale) è di ordine naturale e terapeutico. Gli antichi staretz erano in effetti dei terapeuti (e tali dovrebbero essere anche i monaci-maestri d’oggi). Il loro ruolo, prima di condurre all’illuminazione, era di guarire la natura, di metterla nelle migliori condizioni per poter ricevere la grazia, poiché la grazia non contraddice la natura ma la reintegra e la completa.
La montagna, il papavero, l’oceano, l’uccello, elementi della natura che ricordano all’uomo che, prima di andare lontano, deve conoscere i diversi livelli dell’essere, i diversi regni di cui è composto il macrocosmo (il regno minerale, il regno vegetale, il regno animale). L’uomo che ha perso il contatto con il cosmo vive in un suo stato di malessere, malattie, insicurezze, ansietà. Meditare è innanzitutto entrare nella meditazione e nella lode dell’universo perché “tutte queste cose sanno pregare prima di noi” (detto esicasta). L’uomo è il luogo dove la preghiera del mondo prende coscienza di se stessa, ed è questa la preghiera della meditazione di Abramo, con la quale si entra nella più alta coscienza chiamata fede, ossia adesione di intelligenza e cuore a quel Tu che È e che traspare attraverso la molteplicità degli esseri. Meditare come Abramo è praticare l’ospitalità, risvegliare la pace, la luce e l’amore per tutti gli uomini. Abramo messo di fronte al sacrificio è colui che insegna che niente appartiene all’”io” e tutto appartiene a Dio. È la morte dell’Ego e la scoperta del Sé.
Summa e sintesi di tutti i livelli di meditazione precedenti è la meditazione di Gesù, l’uomo cosmico. Egli sapeva meditare come la montagna, come il papavero, come l’oceano, come un uccello, come Abramo e il suo cuore senza limiti tutto comprende sapendo amare anche i suoi nemici.
L’esicasmo utilizza una tecnica psico-fisica di ascesi spirituale avendo il cuore come simbolo centrale. Prima che la entalità moderna (sancita ufficialmente da Cartesio) facesse del cervello l’organo e lo strumento del pensiero lasciando al cuore i soli sentimenti, era proprio quest’ultimo, anche in occidente, sede sia dell’intelligenza che del sentimento. L’esicasmo distingue tra cuore “radiante”, rappresentante la luce dell’intelligenza, e cuore “fiammeggiante” appresentante il calore dell’amore. I simboli della luce e del fuoco riuniti nel cuore ne segnano le due funzioni integrate, quella intellettiva e quella affettiva. Il metodo esicasta esorta ad un ritorno a sé utilizzando l’accorgimento tecnico di coordinazione tra invocazione e respiro. L’invocazione del Nome non deve venire utilizzata come un talismano bensì quale accesso al centro dell’essere, facendo penetrare la preghiera della mente nel cuore, la dove l’occhio del cuore finalmente “vede”. È un’ascensione della contemplazione al termine della quale la preghiera, ora pura, non è più un atto (presupponente uno sforzo) ma uno stato (tendenzialmente ontologico). È lo stato di chi si è “fatto” preghiera. Alcuni autori ne parlano come di una en-stasi, un uscire in sé. La ricerca del luogo del cuore nel quale dovrà “discendere” la preghiera puramente mentale ha per fine la fusione senza confusione del cuore-spirito con la grazia divina, oltre all’unificazione globale della persona (mente-cuore). Cercare il “luogo del cuore” non è immaginarsi entro uno “spazio”, quanto percepire se stessi in uno “stato” dell’essere, avvertito come raggiungimento del “cuore profondo” (“cuore-spirito”) rispetto al quale il cuore fisico rappresenta il corrispondente simbolico(è a questo livello che orrispondono le immagini dell’esicasta a capo chino). L’esicasmo (contrariamente a quanto si potrebbe supporre) ha una disposizione decisamente anti-suggestiva ed ha un addestramento molto rigoroso di controllo dell’immaginazione e della memoria a tutela del praticante circa i rischi di pericolose devianze. La pratica parte con una valenza e funzione terapeutica di ritrovamento della salute psichica, necessaria per accedere all’esperienza spirituale e può essere riassunta in tre parole: fuggi, taci, riposa. Ognuna di queste parole, come le parole della Scrittura, può essere intesa a livelli diversi, letterale, psicologico, spirituale.
Fuggire è prendere le distanze fisicamente da quanto del mondo tiene legata l’attenzione, ma non meno importante è liberarsi psicologicamente da ansie, agitazione, dipendenze varie. Si può essere attaccati alle idee, persino alle pratiche spirituali. Lo scopo è invece quello di non avere attaccamenti, di essere liberi, e si può esserlo anche senza uscire fisicamente dal mondo, mentre a nulla servirebbe “rinunziare al mondo” se si mantengono attaccamenti psichici, affettivi, persino religiosi.
Tacere è avere consapevolezza della parola. La parola può guarire e ferire, istruire e confondere, consolare e offendere. Fare silenzio è importante perché ogni parola ha origine nel silenzio e ad esso torna. Ma non basta il silenzio esteriore, perché i danni di una parola inespressa possono essere maggiori di quelli di una parola espressa. La responsabilità della parola è molto grande, persino quando tace. Il silenzio esteriore è in realtà al servizio del silenzio interiore. Basta tacere perché inizino i discorsi interiori. Terapeuticamente, i maestri esicasti chiedono ogni sera ai novizi l’apertura del cuore e chiamano questo “far uscire il veleno dalla gola del serpente”. Riconoscere le difficoltà di stare in silenzio è cercare la liberazione dai ricordi e pensieri che impediscono la contemplazione. Il silenzio rende presenti al presente. Non si tratta di fare del silenzio un idolo, come la parola, esso non ha valore che per il senso e la qualità che ha. Per l’esicasta, il silenzio delle labbra deve portare al silenzio del cuore, capace di condurre al silenzio dello spirito. Ma quest’ultimo silenzio è un dono.
Nel riposo c’è la mancanza di preoccupazione, la possibilità della contemplazione. La pacificazione della mente è anche pacificazione dei desideri. Si impara ad accontentarsi di ciò che si ha e di ciò che si è, e a gioirne, con umiltà. L’umiltà è verità e in essa il riposo è fiducia.
Alla base della psicologia e terapia esicasta c’è quanto riassunto nell’opera di Evagrio, la Praktiké. Questo monaco del IV° secolo spiega nel suo trattato il metodo che mira a purificare la parte passionale dell’anima, permettendo all’uomo di conoscere la sua vera natura a “immagine e somiglianza di Dio”, liberata da tutte le malformazioni e deformazioni patologiche. La praktiké consiste in un’analisi dei moti dell’anima e del corpo, delle pulsioni, delle passioni, dei pensieri che agitano l’essere umano e che sono alla base di comportamenti più o meno negativi. La terapia è analisi e lotta contro ciò che Evagrio chiama “logismoi”, letteralmente, “pensieri”. L’idea terapeutica consiste nel discernere ciò che fa da ostacolo all’unione armoniosa dell’essere, che impedisce la vita dello spirito (così la lotta contro i diavoli è la lotta contro, letteralmente, dal greco diabolis, ciò che divide, mentre l’equivalente ebraico “shatan”, da cui il nostro satana, letteralmente significa “ostacolo). Alla radice dei sintomi di una malattia dello spirito o malattia dell’essere, Evagrio trova otto logismoi: la gastrimargia, che non è solo golosità ma ogni forma di patologia orale. La philarguria, non semplice avarizia ma ogni forma di “stitichezza” dell’essere e di patologia anale.
La porneia, che è fornicazione e ogni forma di ossessione sessuale e di deviazione della pulsione genitale.
Orgé è la collera, patologia dell’irascibile. Lupé è la depressione, tristezza, malinconia. Acedia è la depressione nella sua forma più grave, la disperazione con tendenza suicida (pulsione di morte). Kenodoxia è la vanagloria, l’inflazione dell’ego. Uperèphania è orgoglio, paranoia, delirio.
L’idea di base è che la malattia psichica (dell’anima) oltre ad essere dannosa di per sé, impedisce la vita dello spirito. L’esicasmo comincia con il risanare e prosegue cercando l’evoluzione in senso spirituale.
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